Il biplano e la cometa

di Gianni Sarti. 1997.

Fino a pochi giorni prima quello era stato un campo di broccoletti. Un lenzuolo

giallo tra altri lenzuoli gialli, vicino ai germogli infreddoliti del grano, vicino ai colori vivaci delle lenticchie.

Poi il giallo era svanito, era venuto il tempo del raccolto e il campo era diventato un terreno brullo ricoperto dai resti delle piante strappate.

Era ovvio che nessun’altra magia avrebbe potuto trasformare quel campo in qualcosa di diverso, non prima della tarda primavera, col suo verde d’erba nuova, non prima dell’autunno, con i suoi colori di terre grasse.

Eppure un mattino, d’improvviso, quel campo – unico tra tutti i campi della valle – mutò, diventò qualcos’altro, richiamò l’attenzione di tutta la gente del paese vicino e dell’altro paese più distante.

Un mattino d’aprile quel campo ora incolto diventò una pista d’atterraggio.

Erano le undici circa quando il ronzio lontano si fece udibile, trasformandosi da sussurro in suono, da suono in rumore e poi in frastuono; man mano che il biplano si avvicinava i contadini alzavano il viso verso il sole, curiosi, per un attimo venivano toccati dall’ombra che correva sul campo più veloce della corriera, e rimanevano a guardare, con la mano sugli occhi a proteggersi dalla luce del vicino mezzodì, rimanevano a guardare la coda di quel demone rombante che rimpiccioliva di nuovo.

L’aviatore salutò i ragazzini chiusi nel piccolo furgoncino che arrancava lento obbedendo alla guida di una suora, poi tornò a studiare i campi sotto di lui in cerca del terreno giusto: la maggior parte dei campi non era vicina alla strada, e quelli che lo erano non erano abbastanza lunghi, o erano coltivati, o avevano alberi e fili elettrici, massi e capanne.

Poi passò ruggendo sul campo dove i broccoletti erano stati raccolti, e subito gli sembrò  adatto; virò, ci passò di nuovo sopra a bassa quota per studiarne la geografia, notò la presenza di un gruppo di buche sulla destra, calcolò la turbolenza del sottovento di una spalletta di terra che correva lungo il bordo più lontano del campo successivo.

Infine diede manetta, virò di nuovo prendendo un po’ di quota e si apprestò, motori quasi al minimo, all’allineamento con la nuova pista d’atterraggio. Due piccoli colpi sulla cloche, il muso avvisò del pericolo di uno stallo, e finalmente le ruote conobbero il terreno: in un turbine di frastuono e di gas di scarico il biplano iniziò a tremare su quel percorso accidentato perdendo velocità, poi anche il ruotino di coda si abbassò vittima della gravità, toccò il suolo, e il muso dell’aereo ora puntato verso l’alto impedì all’aviatore di vedere il percorso davanti a sé.

Sterzò appena a sinistra per evitare le buche, il mezzo era scosso come una bicicletta in corsa su un sentiero aperto dai cingoli dei trattori.

Virò a sinistra, una curva di centottanta gradi, e col vento in coda guidò lentamente sino all’inizio del campo, quasi pavoneggiandosi agli occhi dei pochi braccianti che potevano vederlo. Poi girò ancora su sé stesso e puntò di nuovo l’aereo controvento, pronto a decollare.

Spense i motori, e il rombo morì con due colpi di tosse.

Le orecchie ferite si riempivano, ora, di silenzio.

Saltò giù dalla carlinga salutando con un braccio i contadini, si sgranchì le gambe flettendo sulle ginocchia e osservò il cielo: vento da ovest, qualche cumulo a forma di popcorn, il fumo che saliva obliquo da un falò e si disperdeva subito: il tempo era ottimo per volare e sarebbe rimasto tale almeno fino al giorno dopo. Certo, se il vento avesse iniziato a soffiare da sud la situazione sarebbe cambiata…

Si tolse gli occhialoni e il casco di cuoio, slacciò la blusa di pelle e si sistemò la logora sciarpa di seta bianca; sapeva il fatto suo, nessuno vedendolo avrebbe messo in dubbio che lui fosse il pilota del biplano che era passato basso intorno ai due paesi vicini.

Dall’abitacolo del passeggero tirò fuori un cartello che andò a piantare vicino alla strada così che i viaggiatori potessero leggerlo: “Volate in biplano! Sconti per famiglie e comitive”. Giusto in tempo: il furgoncino che aveva superato poco prima gli pass  davanti, quindici paia di manine lo salutarono festose e riverenti: lui era l’omino che guidava il demone rombante, che domava quel motore possente cavalcando i venti, danzando tra le nubi, ed era là sul ciglio della strada. Persino la suora rallentò per osservare l’aereo, e gli sorrise.

Entro quattro ore quel campo d’atterraggio sarebbe stato pieno di gente desiderosa di vedere, di provare, di volare, gente con in mano le banconote o gli spiccioli raccolti in fretta, gente con forme di cacio e salsicce e bottiglie di vino che lo avrebbero invitato a cena per sentire le storie che un cavaliere dei cieli doveva raccontare.

E lui avrebbe parlato di temporali africani tanto potenti da risucchiare su l’aereo ormeggiato con tutto l’hangar intorno, avrebbe raccontato di ghiacci del Polo capaci di bloccare il motore, appesantire le ali e obbligarlo ad atterrare su un iceberg, avrebbe narrato di voli tanto alti da riuscire a vedere la Terra tonda dorata dal tramonto, con la luna a un tiro di schioppo così vicina da vederne i campi e le sabbie.

Bugie. Ma erano questi i racconti che la gente si aspettava da lui, e costava così poco farli felici…

Prese il collante e il nastro di tessuto adesivo. Aveva giusto il tempo di riparare con calma quel vecchio strappo sulla tela dell’ala, prima dell’arrivo della folla.

I primi ad arrivare furono i ragazzi in motorino. Con gli sguardi incuriositi, corsi lì direttamente dalla piazza del bar dov’erano seduti quando i volantini scritti a mano erano piovuti su tutto il paese. “Dalle quattro al tramonto, l’unica occasione per volare su un vero biplano! Sconti per famiglie e comitive.”

Rimanevano a guardare dalla strada, seduti a metà sui loro sellini. Era giusto così, era sempre così. L’aviatore si diresse verso di loro pulendosi le mani impiastricciate di colla su di uno straccio, sorridendo amabilmente. Stava a lui far sì che la curiosità divenisse interesse. Sul suo viso cotto dal sole la fitta ragnatela di rughe modell  un disegno geometrico.

“Ragazzi, devo fare un giro di prova. Qualcuno di voi vuole approfittarne?”

Muti, a scambiarsi sguardi complici. Lui ci era abituato. I ragazzi lasciavano gocciolare via le occasioni uniche rimanendo fermi a osservare, ad aspettare che qualcuno, qualcun altro, accettasse l’offerta, per poi dire “ero lì, sarei potuto essere io”.

L’aviatore strapp  un ciuffo d’erba, lo strinse nel pugno e allung  la mano: “Chi pesca il filo più corto. Lo porter  davanti le finestre della ragazza che preferisce, e far in modo che lei esca e veda chi è stato il primo ad avere il coraggio di volare con me su quel biplano.” Ammicc  sorridendo, e i ragazzi presero i fili pronunciando un nome e scambiandosi gomitate.

Il più giovane vinse, e lei lo vide dal balcone, un ragazzo felice che volava dieci metri più in là. Lo vide fuggire rombando tra le nubi, e lo salutò.

All’atterraggio ormai i curiosi facevano la fila per vedere il biplano, e quando osservarono l’espressione felice del ragazzo che aveva volato, timidamente formarono una piccola, insicura fila a un lato del campo, accanto al cartello sulla strada. Bene, pensòò  l’aviatore, abbiamo rotto il ghiaccio.

Port  i passeggeri oltre il fiume e sopra le loro case a osservare i coppi dall’alto, fece qualche modesta evoluzione per soddisfare i più coraggiosi e invece volò tranquillo con i più timorosi, toccò le nubi e corse radente alla strada.

Sul campo aveva steso due linee parallele fatte con una fettuccia di plastica bianca e rossa a delimitare la pista e tutto intorno ora la folla si accalcava: contadini e fornai, impiegati e carabinieri, tutti lì per vivere qualcosa di cui poi avrebbero parlato per anni.

L’aviatore era felice. Non era questione di soldi, no: era dare alla gente ciò che la gente voleva, anche se non sapeva di volerlo. Un volo, dieci minuti di follia e di emozioni incredibili, assordati e spruzzati d’olio, magicamente in balia di una struttura di legno e tela capace di vincere il cielo. Vedeva i suoi passeggeri nell’abitacolo anteriore prima aggrapparsi impauriti, senza dubbio pentiti di essere saliti su quella trappola, poi dopo il decollo la meraviglia cacciava la paura e mentre il mondo si allontanava l’insicurezza spariva, vinta da qualcosa di nuovo e di forte, quasi sconvolgente, così che al momento dell’atterraggio poteva sentire con la fantasia i viaggiatori chiedere “no, non torniamo laggiù, non ancora!”.

Un’ora e mezza dopo arrivò anche il pulmino del collegio, guidato dalla stessa suora di prima; l’aviatore lo vide dall’alto, parcheggiato sul ciglio della strada, mentre lui si apprestava all’atterraggio. Ma nella confusione non gli riuscì di vedere né i bambini né la suora. Non avrebbero volato, lo sapeva, nessun collegio finora aveva accettato di mettere mano ai fondi per pagare ai ragazzi un pericoloso volo su un vecchio trabiccolo; l’aviatore avrebbe provato, come sempre, a proporre un prezzo estremamente basso, ma sapeva già che sarebbe stato tempo sprecato: chi era vissuto con i piedi vincolati alla terra non poteva capire. Peccato, per quei ragazzi sarebbe potuta essere un’esperienza indimenticabile.

Atterrò, e una giovane signora lasciò i due gemelli al marito e prese posto sul velivolo. Poi fu la volta del barbiere, venuto al campo con il camice dal cui taschino facevano occhiello pettine e forbici, e poi venne il sindaco con la moglie.

E poi venne quel ragazzino.

Aveva nove anni e non sorrideva.

“Vuoi volare?” gli chiese l’aviatore. La fila di gente che doveva ancora salire sull’aereo si era diradata, attorniava ora il sindaco e sua moglie, e più lontano c’era anche la ragazza del balcone e gli sguardi dei ragazzi sui motorini erano solo per lei.

“Vuoi volare?” ripeté l’aviatore, chinandosi su un ginocchio e urlando per coprire il frastuono del motore al minimo.

Il ragazzino fece cenno di sì, con le sopracciglia alzate su uno sguardo di speranza.

“Fammi parlare con i tuoi genitori, vediamo cosa si può fare.”

Il piccolo rimase immobile fissando l’aviatore con quello sguardo di supplica.

“Sei troppo piccolo, non posso portarti con me se i tuoi genitori non sono d’accordo! Dài, valli a chiamare.”

Il bambino era sempre immobile. Poi si morse le labbra, aprì la bocca, la richiuse, si morse ancora le labbra. Infine disse qualcosa.

“Come?” gridò l’aviatore: il rumore aveva soffocato le parole del ragazzino. Questo si avvicinò alle orecchie dell’aviatore e ripeté: “Puoi portarmi…?” L’aviatore rise.

“Posso portarti ovunque. Sono stato in Africa e al Polo Sud, tra i monti scozzesi e dentro l’Etna. Dove vuoi andare, sotto la luna, dentro le nubi del temporale, o solo ai confini del mondo?”

“Puoi portarmi da mamma e papà?”

“Tutto qui? – rise lui. – Certo, piccolo. Puoi contarci.” Si guardò intorno. “Dove sono i tuoi genitori?”

Il bambino fece per parlare, richiuse la bocca e guardò in alto, verso una grossa nube bitorzoluta.

“Allora? Dove stanno?”

Il piccolo continuò a guardare in alto; alzò una mano e tese l’indice. L’aviatore vide la nube: non prometteva nulla di buono. Forse il vento stava cambiando, e vento da sud avrebbe significato l’arrivo di nubi troppo prepotenti per sfidarle con il suo piccolo drago di legno e tela. Ormai il sole era prossimo all’orizzonte, entro tre ore si sarebbero decise le sorti meteorologiche del giorno successivo.

“Forse non pioverà” disse l’aviatore, ma poi capì: quell’indice puntato in alto era la risposta del bimbo alla sua domanda.

“Sono piloti, i tuoi genitori?”

Il ragazzino continuava a guardare il cielo, poi spostò lo sguardo sull’aviatore e, senza rispondere, restò in paziente attesa.

“Se sono lassù puoi scommetterci che ti porto da loro, anche fossero a dieci milioni di piedi di quota, ti ci porto tanto vicino da salutarli con la mano. Ma con chi sei venuto qui?”

In quel momento la suora urlò “Eccoti, delinquente! Ve l’ho detto, non muovetevi, è pericoloso, statemi tutti vicini! Ah, lo scusi, sa – disse rivolta al pilota – è un demonio, non si riesce a tenerlo fermo, lui peggio che quegli altri scalmanati! Su, fai ciao al signore, e vieni se non vuoi che te le suono di santa ragione – lei lo tirava per un braccio, e parlando gli appiopp  uno scappellotto senza forza sulla nuca, un gesto autoritario eppure materno. – Lo scusi, sa – ripeté al pilota – ma è muto, è da quando sono morti i suoi genitori in un incidente stradale che ha perso il dono della parola.”

Lo trascinò via senza permettere all’aviatore di replicare, lo trascinò mentre lui si girava e guardava l’aviatore con quello sguardo colmo di speranza, e ora di intesa, che non lo abbandonò neanche da dietro i vetri del pulmino mentre questo si faceva piccolo sparendo lontano.

Le nubi, regine della notte, divoravano sempre più le stelle. Erano greggi di nubi basse create dal vento caldo e umido del Sud: l’indomani non sarebbe stata una giornata adatta al volo.

Dopo l’incontro con quel singolare ragazzino l’aviatore aveva continuato a portare la gente nel cielo per un’altra ora, poi si era fermato perché iniziava a diventare buio e perché doveva lasciare abbastanza carburante per arrivare il giorno successivo all’aviosuperficie della città che stava a due ore di volo verso ovest.

Ed era venuta la notte, le fiamme del tramonto si erano spente e ora lui riposava nel sacco a pelo sotto l’ala dell’aereo, così da avere una protezione per l’umidità, non lontano dai resti del fuoco su cui aveva riscaldato la cena.

La giornata non era andata male: ora aveva un discreto gruzzoletto, assai più di quanto servisse per il carburante, e aveva formaggi e salumi, vino e latte.

L’avevano anche invitato a cena e avrebbe potuto dormire in un letto vero; ma non era dell’umore giusto, non si sentiva incline alla compagnia: ripensava a quanto aveva promesso al bambino.

“Posso portarti ovunque”.

Dov’era lo sbaglio? Lui voleva dare alla gente ciò che la gente voleva, bastava così poco per far divampare la felicità… Poteva andare a cenare da quella famiglia di contadini che si erano mostrati così gentili, erano assetati di storie, avrebbe raccontato le vecchie collaudate frottole e ne avrebbe inventate di nuove, li avrebbe resi felici; ma perché non era andata così con quel bambino?

Non aveva capito, neanche quando aveva visto il ditino indicare il cielo. “Se sono lassù puoi scommetterci che ti porto da loro, anche fossero a dieci milioni di piedi di quota, ti ci porto tanto vicino da salutarli con la mano”.

Voleva offrire un volo a quel ragazzino, un sogno, voleva esaudire anche il suo desiderio; invece si era lasciato portare via il bimbo e il suo sogno dalla suora del collegio. D’altronde se la suora non fosse intervenuta, come avrebbe potuto tener fede alla promessa fatta?

Aveva deluso quel monello, e il ricordo di quello sguardo di speranza lo caricava di uno sgradevole senso di colpa.

Guardò in alto, dove la manina aveva puntato un luogo vago: c’erano le nubi giovani a nascondere il cielo, con i bordi illuminati dalla luna piena.

Le cicale cessarono il loro frinire, lasciando la notte in preda a un silenzio spaventoso.

Era in notti simili che l’aviatore inventava le sue storie, le immaginava, le condiva di particolari e le confezionava pronte per i prossimi curiosi; ma quella notte no, aveva la mente occupata da altro.

Una cornacchia volò via dal prato, dirigendosi verso ovest.

Lassù, più o meno dove la manina aveva indicato, molto sopra le nubi, la cometa Hale-Bopp faceva sfoggio della sua doppia coda, e per distrarsi l’aviatore cercò di portare l’attenzione a questa meravigliosa visitatrice; ormai lei era ospite dei cieli da parecchie settimane e lui la considerava quasi un’amica. Ma poi l’aviatore si scoprì a pensare che neanche la cometa avrebbe potuto portare quel bimbo dai suoi genitori.

Il fruscio dell’erba mossa dal vento aumentò per un istante.

“Puoi portarmi da mamma e papà?” chiese il bimbo, in piedi vicino al biplano.

“No” avrebbe dovuto rispondere. Semplicemente, sinceramente: “No”.

Ma si girò, sorpreso dalla voce, e guardò il ragazzino negli occhi; e poi non fu più capace di dire no.

“Certo: te l’ho promesso.”

Il bambino sembrò sorridere, come se sorridesse per la prima volta dopo anni.

Avrebbe dovuto dire “no, non posso, mi dispiace”; il ragazzino sarebbe tornato un bambino muto intrappolato dagli scappellotti, dalle suore del collegio, l’aviatore si sarebbe tolto da un pasticcio impossibile… E quel sorriso non sarebbe mai sbocciato.

Così il pilota recitò la parte a cui non era riuscito a sottrarsi, pago di quel sorriso:

“Posso portarti ovunque. Perché, avevi dei dubbi?”

Era come recitare bugie per le famiglie assetate di storie incredibili che lo ospitavano, bastava raccontare ci che gli altri volevano sentire. Poi? Poi una collanina di perline colorate diventava il fatato regalo dello stregone haitiano, una scheggia d’osso si trasformava nell’ultimo reperto archeologico degli antichi dragoni norvegesi, un frammento di metallo colorato veniva spacciato per la prova del disco volante incontrato in Nepal. Stavolta forse la luce delle stelle lo avrebbe aiutato, Marte era grande e rosso nel cielo in quel periodo, era facile presentarlo come una presenza sovrannaturale.

“Andiamo” chiese il bimbo.

“Eh, con calma: bisogna preparare l’aereo. Vieni, siedi accanto al fuoco, riscaldati. Ti preparo un bicchiere di latte caldo, eh?”

Senz’altro il ragazzino era scappato dal collegio; le suore probabilmente non si sarebbero accorte di lui prima del mattino seguente, quindi l’aviatore aveva tutto il tempo per inventare qualcosa. Mise il latte sulle braci, poi tirò via la cappottina bagnata di rugiada notturna scoprendo l’abitacolo del pilota e quello del passeggero.

Davvero avrebbe volato di notte, con un cielo dove la luna piena era quasi nascosta dalle nubi? Dove sarebbe atterrato? Il biplano si sarebbe schiantato nel buio, durante l’atterraggio. Se lui fosse stato tanto sciocco da sentirsi in grado di viaggiare di notte allora sarebbe partito la sera stessa per l’aviosuperficie a due ore di strada visto che per il giorno dopo si preparavano tante nubi da costringerlo sicuramente a non muoversi da quel campo.

Solo un pazzo totale avrebbe volato di notte con un biplano. Per cosa, poi? Per la promessa impossibile fatta a un bambino.

Ma d’altronde le nubi ancora non coprivano totalmente il cielo, era come un gregge rado di pecorelle tra la terra e le stelle, e spesso la luna illuminava come un fanale la terra; quel campo, poi, lo conosceva ormai a memoria: vi era atterrato per decine di volte nell’ultimo pomeriggio, ormai sapeva a occhi chiusi dov’erano i sassi, le buche nel terreno, gli sterpi da evitare. Avrebbe ravvivato il fuoco, che come un radiofaro lo avrebbe guidato nel campo giusto durante l’atterraggio. “I tuoi genitori sono in cielo, vero?” Il bimbo fece cenno di sì col capo.

“Bene. Li troveremo. Cominceremo a cercarli là, – indic  la zona del cielo dove doveva trovarsi Marte – se siamo fortunati Dio ci manderà un rubino come segno,” “No, non stanno là.” interruppe il bambino.

“Ah, no? Tu sai allora dove sono i tuoi genitori?”

La manina tornò ad alzarsi, con l’indice puntato.

“Là? Sei sicuro?”

“Sì. Sono venuti da lì anche l’anno scorso.”

L’aviatore smise di armeggiare intorno al motore, tolse il latte dal fuoco, lo versò e si finse interessato.

“Vengono tutti gli anni?”

“No! L’anno scorso. Ma non possono avvicinarsi, e io non potevo salire lassù. Così sono tornati, e sei arrivato tu.”

“Quest’anno ti ci porterò io, ragazzo. Ecco, il latte è pronto…”

In quel momento le nubi, spostate dal vento, smisero di nascondere il settore di cielo che il bambino aveva indicato poco prima, e due code divergenti si rivelarono in tutta la loro maestosità. Hale-Bopp, magnifica e irreale, dominava le stelle; il bimbo alzò gli occhi e sembrò preso da una frenesia improvvisa, così anche l’aviatore guard  in alto e la vide.
La cometa.

Ecco, pensò, quella cometa con due code poteva aiutarlo. Il ragazzo aveva detto che i suoi genitori erano stati “lassù” anche l’anno precedente, e l’anno precedente era passata la cometa Yakutake… La fantasia dell’aviatore lavorò veloce e poi improvvisamente seppe cosa fare.

“E’ lì che vuoi andare, vero?” chiese, senza dare alcuna importanza alla cosa.

Il ragazzino annuì.

“-Gamma ventisei trentasette-” disse lui, per fare scena, come calcolando coordinate invisibili. “Hai mai volato?”

Il ragazzo accennò di no con la testa.

“Eh già. -Quindici in contumacia-. Stanotte sarà dura: niente di preoccupante, sai, ma le vedi quelle nubi? Quelle, e quelle a forma di -estimo-zeta-. Oh, io ci passo in mezzo a occhi chiusi, ma chi vola per la prima volta, eh, beh, può sentirsi male fino a vomitare l’anima.”

Lo sguardo del bambino si fece preoccupato.

“Stai tranquillo, andrà tutto bene: ti ci porto, te l’ho promesso! Solo non voglio che tu stia male, pensa che fregatura se mi svieni proprio mentre ci avviciniamo a loro!” Frugò in una tasca interna della vecchia bisaccia militare, tirò fuori una bottiglina di succo di frutta. “Ecco…” La stapp  e ne fece rotolare fuori una biglia appiccicaticcia rossa, che porse al bimbo. “Tieni: scioglila nel latte, e non soffrirai mai più il mal d’aria in vita tua.”

Il ragazzo prese la pastiglia nella manina, la guardò da tutti i lati senza decidersi ad affogarla nel bicchiere di latte.

L’aviatore stava per dire che era una medicina miracolosa che veniva da Vienna, quando il ragazzo parlò: “Non prendo mai le medicine, io.”

“Medicine? Quella è una ricetta magica, non è una medicina!” disse subito l’aviatore. “Guardala bene: vedi forse un’etichetta, o un nome come Pentium o Avirex? No. Perché non è una medicina. Me l’ha data un guru in India, sai, roba di yoga e di stregoni.”

Il ragazzo osservò i riflessi della luna sull’oggetto, guardò l’aviatore e si morse le labbra.

Per dare meno importanza alla cosa l’aviatore prese il collante e il nastro di tessuto adesivo e, girando le spalle al bambino, salì sulla carlinga per riparare meglio il modesto squarcio alla tela dell’ala. Diede tempo al bambino, fischiettando vecchie note di strofe irlandesi, armeggiando con la tela adesiva che non voleva saperne di appiccicarsi sul tessuto bagnato dell’ala. Probabilmente la riparazione non avrebbe tenuto per più di mezz’ora, quella riparazione non aveva mai tenuto per più di mezz’ora a dire il vero, e la tela con la sua colla, simile a una striscia di carta moschicida, sarebbe rimasta a sventolare come una bandiera impazzita adesa solo a un angolo o forse sarebbe volata via per cadere in qualche posto improbabile. Fa nulla, si disse l’aviatore, tanto il biplano avrebbe volato egualmente bene: lui usava riparare quel taglio sulla tela solo per nasconderlo alla vista dei suoi passeggeri, e ora lo faceva semplicemente per dare il tempo al bimbo di decidersi ad accettare la pasticca rossa.

Si girò: il ragazzino stava mescolando il latte con una pagliuzza, ma ancora non si decideva a berlo. Sospirò.

“Dai, bevilo, così mi dai una mano a mettere in moto e per quando partiamo la pasticca avrà iniziato a fare effetto.”

Niente.

Si avvicinò al suo piccolo passeggero, gli prese di mano il bicchiere e ne bevve due sorsi. “Uhm. Non è cattivo. Prima lo bevi e prima partiamo, ragazzo.” Senza scampo, il bimbo mise le labbra sul bicchiere e bevve un sorso di latte, e poi fece un rumore esagerato di deglutizione. L’aviatore rimase in silenzio, così il ragazzino riportò il bicchiere alla bocca e chiudendo gli occhi ne sorseggò  il contenuto fino alla fine, sotto lo sguardo del pilota.

“Bene. Adesso aiutami, è ora di partire: sali qui, sull’ala, infilati nell’abitacolo e dimmi immediatamente se si accende qualche lucetta, va bene?”

Il ragazzino obbedì, entrò nell’apertura scomparendo nella carlinga. Quando la sua testa riemerse chiese “Quali lucette?”

“Quelle d’emergenza, no? Se si accendono urla forte, mi raccomando!”

Ovviamente non c’era nessuna luce nell’abitacolo del passeggero, e non ci sarebbero state emergenze: era solo un piccolo trucco per far star buono il cucciolo lontano dalle pericolose pale dell’elica mentre lui metteva in moto il biplano.

Fece fare un mezzo giro a vuoto alle pale, le gocce di rugiada scivolarono in scie di lumaca verso terra. Ravviv  il fuoco, unico succedaneo di radiofaro, e fece in modo che per un’ora sarebbe rimasto vivo. Poi radun  la sua roba e la mise accanto al fuoco, salì con due balzi nel posto del pilota, dietro quello dov’era il ragazzo, e si sistem  sciarpa, occhialoni e casco.

“Tieni” disse, porgendo un altro paio di occhialoni e casco. “Saranno grandi, ma è meglio di niente. Hai un maglione pesante sotto quel giubbino?” “Sì” mostrò il ragazzino.

“Bene. Prendi anche questa coperta. Lassù farà freddo. Gli angeli non soffrono il freddo, sai?”

Il piccolo annuì: lo sapeva.

“Okay, si parte. Preparati a vedere gli angeli, ragazzo, e a salutare i tuoi genitori. Ci sono luci d’emergenza accese?”

Cenno di no, gli occhialoni scivolarono sul nasino.

“Allora…” Un cicchetto con la manetta, due, tre, quattro. Clic-clic degli interruttori spostati su. Magneti: contatto. Un colpo di tosse dal motore, e nulla più. Freddo e umido, il motore era restio a svegliarsi dal sonno. Altri cicchetti, un tocco alla valvola del carburante e alla leva dell’anticipo; “Luci? Emergenze?”, cenno di diniego, stavolta tenendosi fermo gli occhialoni con una mano. Di nuovo la sequenza, e un getto di fumo e di tuono invase la notte, le pale iniziarono a girare, l’aereo di legno e tela prese a tremare, gocce di umidità che scivolavano via dalla carlinga e dai tiranti delle ali, riflessi d’argento lunare sull’elica stagliati nel buio della notte limpida, via i freni, ed ecco il drago ormai sveglio scuotersi il sonno di dosso, avanzare sul suolo accidentato, prima sornione e cheto, poi deciso come un coguaro che pesa la rincorsa, sempre più veloce, al trotto, più veloce, al galoppo, su una pista buia di notte, e rombo di tuono assordante, velocità pura, la coda ormai alzata, il ruotino posteriore staccato dal suolo come risucchiato dalla scia del velivolo, il campo che schizza sotto le ali, più veloce, il fuoco ormai lontano, e poi gli scossoni del terreno smettono quasi per magia, un colpo delicato alla cloche e si è in volo, uccelli notturni di tela legno e metallo, sferzati dal vento, il suolo sembra cadere via, muso verso le stelle sopra l’orizzonte, stelle tagliate in mille riflessi dal disco dell’elica, l’ombra lunare dell’aereo che saetta veloce sul suolo sempre più lontana, ed ecco le mani del bambino farsi meno bianche, smettere di stringere convulsamente i bordi dell’abitacolo, ecco il suo volto azzardarsi a girare intorno, rilassando l’emozione che l’aveva investito durante il decollo, forse paura, di quella paura che ci fa sentire vivi.

“Si vola!” pensò l’aviatore. Inutile parlare: con quel frastuono non sarebbe servito. “Si vola! Di notte, con due sole ore di carburante, e con le nubi. Pazzo. Ma santo Iddio, che bello!” Batté sulla spalla del piccolo davanti a lui, gli indicò il paese: un presepe senza anima viva con le strade vuote illuminate da lampioni rosa, poco più di un chilometro a nord.

Il ragazzino guardò, annuì, poi volse il viso in alto, verso la cometa.

I riflessi della luna giocavano sul tessuto cerato del biplano creando balenii come fossero incantesimi; l’aria che sferzava il viso ora era fredda, ma davvero fredda, e non c’era nessuna corrente ascendente a cui le ali potessero aggrapparsi per guadagnare un po’ di quota con meno fatica.

Il tuono assordante del motore portò il biplano in una spirale molto larga, a ogni giro il mondo là sotto si faceva più lontano e scuro, già il balcone dove quello stesso pomeriggio una ragazza aveva salutato un giovane emozionato ora era un francobollo rosa sotto il lampione della via, e dopo un altro giro eccolo diventato una macchiolina; l’aviatore guidava il suo tappeto magico in lente anse spiraleggianti per non allontanarsi troppo dal fal , unico punto di riferimento per un eventuale atterraggio d’emergenza: i motori dei biplani sono creature bizzose, quell’elica che ora girava con la forza di un ciclone poteva decidere per capriccio di fermarsi da un momento all’altro e costringere l’aereo a scegliere una pista improvvisata su cui planare. All’aviatore capitava almeno una volta al mese, e ormai gli atterraggi d’emergenza facevano parte della sua vita come i campi di girasole e i cieli stellati.

Che strana cosa la vita, pensò mentre guidava il suo destriero verso il lato inferiore di un letto di nubi; era lì, in volo notturno con un mezzo di cinquant’anni fa, a fremere di gioia nel sentire gli aghi ghiacciati del vento frustargli il viso, gli schizzi d’olio del motore appannargli gli occhiali, con un bimbo muto che parla solo con lui da portare tra gli angeli su sopra le nubi.

Strana cosa la vita. Non aveva mai creduto di poter essere tanto felice di vivere; in tanti anni di questa vita non aveva mai rimpianto quel giorno in cui aveva deciso di lasciare tutto, la casa in città, la carriera di geometra in una ditta come tante, l’auto presa a rate, lasciare tutto per la pazzia di acquistare quel biplano visto in un annuncio sul giornale.

Pazzo. Eppure quella vita grigia aveva di colpo lasciato il posto a un’avventura senza fine, lui che non aveva mai volato neanche come passeggero, ora promosso ad asso dei cieli del passato, inventarsi ogni giorno nuovi voli, nuove storie, imparare a volare e ad accudire quel mostro rombante, vivere una vita degna d’essere vissuta.

E ora, eccolo nell’ennesima pazzia, lui che un tempo aveva timore anche delle onde elettromagnetiche dei cellulari: freccia buia nella notte, alla conquista di qualcosa di bello per il suo passeggero.

Sorrise.

Era bello dare la felicità agli altri, anche se si trattava di pochi minuti; sconvolgerli con quel mezzo antico, destarli dalla monotonia delle televisioni, dal fascino dei computer. Dare agli altri un briciolo di ciò che provava lui ogni giorno, ogni momento.

L’aviatore avrebbe fatto ogni cosa per donare un briciolo di felicità, di emozione…

E il bimbo non sembrava immune da tanto fascino. Si osservava intorno, chinava indietro la testolina per sentire i rivoli di vento gelido scorrergli lungo la gola, seguiva con gli occhi il latte della luna che dall’estremità di un’ala pian piano virando arrivava a lambire la carlinga, spariva nell’ombra delle ali superiori e infine ricompariva sull’altra ala viaggiando verso l’estremità più lontana; ma ogni pochi minuti il piccolo si voltava verso l’appuntamento nel cielo, l’appuntamento con gli angeli aveva detto l’aviatore, sperando di vedere oltre le nubi che ora erano parcheggiate tra il biplano e la cometa.

Ma quelle nubi, man mano che la terra rimpiccioliva nel buio, si facevano più grandi e vicine; come castelli di bambagia scura da assediare, come transatlantici alieni cui andare all’abbordaggio.

Il fiume oltre il paese era un nastrino d’argento, illuminato incostantemente dalla luna che ancora dominava la sua fetta di cielo; un nastro d’argento con cui impacchettare il presepe abbandonato del paese, ormai tanto piccolo da poter entrare in quelle sfere di cristallo colme di liquido che se le rovesci scateni una fugace tormenta di minuscola neve.

Ancora un giro, un altro, e poi improvvisamente le nubi, come un soffitto su cui sarebbero andati a sbattere, solide e grigie, un soffitto che senza pietà inghiottì il timone e l’ala superiore, e in un baleno, anche il bimbo e il pilota, gelo più freddo del ghiaccio di prima, odore di pioggia a venire, e la nube divorò l’intero aereo che continuava a salire al suo interno tra gli scossoni pigri delle blande correnti d’aria, una rotta tracciata a visibilità zero, persi nel grigio nulla umido, mezzo giro tenendo salda la cloche, un giro, il motore starnutì, un pistone scelse proprio quel delicato momento per cominciare a perdere dei colpi, uscirono dalla nube e rientrarono immediatamente nella successiva prima ancora di rendersi conto di esserne fuori; il pistone si fermò del tutto, il rumore del motore ora sembrava avere un singhiozzo ritmico. Poco male, l’aviatore conosceva bene il comportamento capriccioso del pistone numero tre: fra poco avrebbe ripreso da solo a funzionare e nel frattempo bastava non chiedere troppo al motore.

Abbassò il rateo di salita assecondando un po’ i timoni di profondità, fidandosi dell’istinto. Si raccontava di piloti che senza punti visivi di riferimento avevano perso il controllo dentro le nubi e si erano ritrovati a picchiare giù in una vite mortale mentre erano sicuri di essere paralleli al suolo, sicuri che l’indicatore dell’orizzonte artificiale si fosse guastato.

Il bimbo, sentendo il rumore ora singhiozzante del motore, si volse verso il pilota, macchia scura nel grigio perla che li avvolgeva, e proprio in quel momento il loro bizzoso tappeto volante erutò  fuori da quel grigio, e il ragazzino non trovò più le parole per interrogare il pilota su quell’avaria, sopraffatto da tanta incredibile bellezza: la luna bagnava le nubi rivestendole di un biancore iridescente, un contrasto inspiegabile col grigio buio che regnava dentro quei giganti di zucchero filato; ai loro piedi, subito sotto le ruote del biplano, c’era un tappeto collinoso di cumuli tondeggianti, dalle costruzioni fiabesche, castelli di vapori color latte e perla, e sopra quel tappeto l’ombra netta e buia delle ali sfrecciava carezzandone ogni insenatura, ogni altura.

Ma sopra, sopra di loro… La luna, lanterna abbagliante, era un’esplosione di luce, creava riverberi a forma di ventaglio sull’elica, si rifletteva sulle mille goccioline che le nubi avevano donato alle ali, sovrastava il diamante delle stelle come un sole sovrasta il baluginio di un prospero; il bimbo aveva la bocca aperta, catturato da quello spettacolo.

Una torre nata da una nuvola era davanti la loro rotta, e l’uccello di legno e tela, impassibile, vi entr , la attravers  e uscì dal lato opposto in un secondo, un secondo di freddo assoluto, rumori attenuati, odore di temporale e gocciole sul viso. Poi di nuovo il cielo, regno della luna; e più giù, nei canyon tra una nube e l’altra, molto più giù, c’era il paese, puntolino rosa, e i campi bui.

“Bene” pens  il pilota, che aveva perso ormai di vista il fal  che lo guidava verso l’at terraggio, sì, ma poteva sempre contare sulle fioche luci del paese e sui riflessi d’argento del fiume.

Il biplano continu  a virare in cerchio, salendo ancora, lentamente, salendo sopra quel mare ghiacciato di schiuma di latte, sopra le costruzioni e le architetture delle nubi; e virando si lasci  la luna alle spalle, così che poterono finalmente vedere di nuovo la loro meta.

La cometa era imponente, magnifica nell’aria limpida, una coda bianca che attraversava un enorme raggio di cielo e un’altra coda, a formare un angolo con la prima, blu, assai più fioca. Sembrava un gioiello fatto di cristalli, il gioiello preferito di Dio, e sembrava attenderli; ora anche il pilota aveva la bocca aperta…

Sul giornale, molto tempo prima, lo sguardo gli era caduto su quell’annuncio. Era in metropolitana, i cellulari squillavano, dei ragazzi accanto a lui parlavano di nuovi programmi per computer e della partita del giorno precedente.

E c’era quell’annuncio. L’aveva letto due volte, pensando di aver capito male, o magari credendo a una celia. Invece no, aveva letto perfettamente e non c’era sentore di alcuno scherzo: un vecchio collezionista vendeva un biplano del ’40, ottime condizioni, in cambio di una cifra di tutto rispetto.

Un biplano.

Lui non aveva mai pensato prima che un biplano potesse ancora esistere, perché nel suo mondo non erano mai entrati i biplani. Legno e tela, campi e cuoio… Così lontano dal cemento e dalla plastica, dai condomini e dai parcheggi multipiano! Il suo lavoro, la sua vita, tutto il suo futuro… Tutto divenne di un orrendo colore grigio cenere, di dimensioni assolutamente insignificanti confronto a tutto ci  che quell’anacronistico annuncio prometteva: un biplano, un biplano vero, il biglietto d’uscita dalla follia di questo tempo, una vita pilotata con una cloche di metallo: un sogno che non era mai stato capace di sognare e che ora lo inghiottiva…

Ecco come andò, ecco perché quel pomeriggio stesso lasci  il lavoro d’ufficio e affidò la casa a un’agenzia immobiliare e telefonò al numero dell’annuncio.

Ma nonostante tutte le visioni che quell’annuncio ormai così lontano aveva risve gliato, il pilota ora tremava per l’emozione per un’avventura superiore alle sue aspettative, tra un orizzonte di nubi iridescenti e la cometa più spettacolare del secolo, sopraffatto da tanta bellezza.

No, non avrebbe mai rimpianto la sua vita precedente. Il velivolo, come accadeva ora, era stato generoso con lui, gli aveva donato avventure e momenti unici… Il pilota credeva che il biplano fosse così gentile perché lui l’aveva tolto alle cure amorevoli del collezionista, che condannavano l’aereo a una vita di prigioniero in un hangar simile a un museo, e l’aveva riportato a vivere nei campi e nei cieli la vita per cui era stato creato.

Il motore sussultò, il cilindro numero tre riprese a funzionare e il piccolo aereo acquistò più potenza. Il vento fischiò di più intorno a loro; così il pilota sorrise e riprese ad alzare un po’ di più il muso per salire più rapidamente ora che la potenza dell’elica glielo permetteva.

Il bimbo si girò, e sorrideva. L’aviatore gli fece un segno con la mano chiusa a pugno e il pollice in alto, il ragazzino rispose allo stesso modo.

“Andiamo a vedere gli angeli” sillabò il pilota, così che il passeggero potesse leggergli le labbra. Il bambino ripeté il cenno con il pollice in alto e si girò verso la HaleBopp.

Continuarono a salire in un’ampia spirale, e giro dopo giro il cielo diveniva uno scrigno di diamanti di luce, la luna accecava sempre di più lasciando gli occhi abbagliati, la cometa si riempiva di luce mostrandosi nei mille particolari del nucleo e delle code. Il programma dell’aviatore era di salire il più possibile, fare osservare la cometa al bimbo e scendere giù. Ci avrebbe pensato la pasticca rossa e l’accenno agli angeli a fare il resto.

Salirono, e il ghiaccio si sostituì al freddo, ma il motore continuava a cadenzare il ritmo dei suoi cinque pistoni come se fosse musica; salirono, e la terra di nubi si allontan  tanto sotto di loro da diventare un baluginio azzurrognolo indistinto. E salirono ancora, e il paese non si vedeva più, il cielo era più buio e l’aria aveva un sapore più leggero.
Lui conduceva il biplano ma non era il pilota che voleva far credere di essere; il brevetto l’aveva preso in fretta spinto dalla sua fame di iniziare la nuova vita, sapeva solo le cose che imparava ogni giorno, volando.

Sapeva ad esempio che oltre una certa quota il biplano, per quanti sforzi potesse fare, non sarebbe riuscito a salire perché l’aria era troppo rarefatta sotto le sue ali; e se pure ci fosse riuscito lui e il suo passeggero avrebbero avuto difficoltà a respirare, e il motore non avrebbe trovato l’ossigeno che gli serviva per bruciare il carburante.

Ma quel limite gli sembrava ancora lontano, il loro drago fedele saliva senza cedimenti e l’aria ghiacciata elettrizzava i polmoni.

Così continu  a salire, sempre più in alto, enormemente più in alto, con larghe virate che ora puntavano sulla luna, ora sulla cometa; le braccia e le gambe, dentro l’abitacolo di cuoio tela e legno, erano moncherini intirizziti dal ghiaccio eppure ogni tanto il bimbo si girava e, sorridendo, mostrava la manina col pollice in su.

“Te l’ho promesso, piccolo.”

Così salirono, continuarono a salire rombando, l’aria sempre più leggera, virando, e se cercava di guardare oltre il piccolo parabrezza ormai spruzzato totalmente di olio motore,  se cercava di guardare oltre sporgendo la testa, mille frecce di gelo puro lo colpivano mordendogli il viso.

Poi pian piano l’aereo abbassò un pochino il muso, e poi un altro pochino: si avvicinavano al limite, era ora di dare il via allo show e poi tornare giù.

Il pilota iniziò l’ultima virata, la luna scivolò da destra a sinistra carezzando con la sua luce le ali e l’elica. Poi, mentre il muso del biplano tornava a puntare la cometa, accadde: il motore si fermò, l’elica fece qualche altro giro e si bloccò sulle quattro e cinquanta. D’improvviso il silenzio, un silenzio impressionante, investì l’aereo, e anche se il rombo del motore aveva lasciato un ronzio fastidioso nelle orecchie quel silenzio li spavent .

Il pilota tentò di far tornare al lavoro le eliche, diede contatto più volte, ma niente, solo il suono degli interruttori e il cigolio delle manette: il motore li aveva piantati.

E, mentre armeggiava con la valvola del carburante controllando se fosse terminato il combustibile, l’aereo puntò sulla cometa e il bimbo alzò un braccio a indicare.

Lo show era iniziato.

Beh, erano altissimi, prima di tornare a terra aveva tutto il tempo che desiderava per tentare di rimettere in moto l’aereo, e anche se non vi fosse riuscito avrebbe potuto atterrare senza motore. Ora poteva permettersi di perdere qualche secondo per gustarsi lo spettacolo d’alchimia e fantasia, bastava tenere ben salda la cloche…

Alzò lo sguardo verso la cometa, e ogni altro pensiero evaporò immediatamente.

Entro pochi secondi il biplano, non più portato dal motore, avrebbe tentato di entrare in stallo e lui doveva tenersi pronto a controllarlo prima che entrasse in vite; ma ora questo non era più importante.

Il ronzio nelle orecchie si andava affievolendo e al suo posto c’era come una musica, forse di violino o di organo, che sembrava diffondersi dal cielo; ma adesso aveva altro a cui pensare.

Le goccioline d’acqua sulla tela stavano cristallizzando in mille fiori di ghiaccio, e se non fosse tornato a una quota più bassa entro pochi minuti, quel ghiaccio avrebbe potuto far precipitare l’aereo; ma no, non era così importante, non ora.

Il pilota e il bambino, bocca aperta e occhi puntati in su, osservavano la cometa.

Lei, il gioiello di Dio, era così vicina, Gesù!, così vicina da ammantare l’intero cielo, ancora pochi metri e alzando una mano avrebbero potuto pettinarle la coda con le dita; ma, così vicina, la sua vera natura si rivelava totalmente.

Le due code luminose ribollivano d’un frullio di ali candide, e milioni di occhi osservavano il biplano. Angeli di luce.

Un enorme, immenso stormo compatto di angeli di luce, ecco cos’era la cometa. Esseri bellissimi che spandevano una musica d’organo e violino, che avevano viaggiato attraverso milioni di anni-luce per essere lì, a quell’appuntamento. Quel volo, oh, quel volo così elegante, e la grazia dei loro lineamenti…

Il pilota sapeva che si sarebbe trovato di fronte agli angeli, ma mai avrebbe potuto immaginarsi uno spettacolo tanto incredibile. Deglutì a vuoto, not  con un briciolino della sua coscienza che l’aereo non tentava minimamente di entrare in stallo, si tolse freneticamente gli occhialoni sporchi dal viso.

Il nucleo della cometa, rotondo e brillante, era composto dagli angeli più luminosi, forse centomila; e dietro, per migliaia e migliaia di chilometri, tutti gli altri angeli di luce, con le loro ampie ali e il viso da fanciulli divini.

La musica li permeava come un’essenza, e il pilota e il suo passeggero ne erano drogati.

Rimasero immobili e silenziosi mentre il biplano volava senza motore verso l’esercito di esseri luminosi per l’infinità di dieci secondi; e nulla poteva distrarli, né il gelo né il pericolo che stavano correndo.

Poi dalla processione di angeli si staccarono due entità, planarono sulle loro piume lunari per pochi metri e si portarono ai lati dell’aereo, sorridendo con una luce incredibile negli occhi.

“Mamma! Papà!” disse il bimbo, ma senza paura, come se fosse naturale trovarli lì, come se fosse ovvio vederli volare tanto vicini da sfiorarne le ali.

Il bimbo rideva felice, sembrava non stare in sé dalla gioia. Eppure non tent  mai di toccarli né allung  le manine tozze per farsi abbracciare, ed era giusto così, qualcuno o qualcosa gli aveva spiegato che gli angeli, quelli veri, non possono essere toccati.

Ora oltre la musica c’era un profumo indescrivibile, e gli aghi di ghiaccio non facevano più così male; “stiamo forse morendo?” pens  l’aviatore. “No, fa tutto parte dello show, tutto secondo copione” si rispose.

Forse pass  un istante e forse passarono secoli prima che i due angeli con un gesto d’addio si allontanarono sfiorando l’ala superiore dell’aereo con le loro piume per rientrare, assai più luminosi di prima, nella schiera dei loro simili.

Il bimbo li osserv  confondersi nella luce imponente sino a che non svanirono in essa, visi tra i visi e piume tra le piume, e man mano che l’aereo si allontanava il fanciullo si girava, per quanto la cintura di sicurezza glie lo permettesse, a guardare quella luce ora sempre più confusa dalla distanza, quella luce che era scesa sulla Terra per lui.

Il biplano, che incredibilmente aveva mantenuto un volo rettilineo per tutto il tempo (secondi? minuti?) improvvisamente risvegliò il motore che con il suo ruggito di tuono scacciò gli ultimi frammenti di musica celestiale. Getti azzurrognoli di fumo furono sbuffati con forza dai pistoni, e il loro odore di combustibile bruciato distrusse il profumo degli angeli.

Il drago, rombante e docile, ora voleva scendere, e il pilota diresse il suo muso verso il basso, verso le costruzioni di nubi, e verso la terra che stava oltre.

La luce degli angeli, ormai non più vicinissima, nascondeva i particolari, e la cometa tornò a occultare il suo segreto; così il bimbo si rimise composto nel seggiolino del passeggero, e silenzioso attese il ritorno al mondo.

I grandi fiocchi di nubi, di quando in quando simili a greggi candidi, cominciarono a mostrare i loro giochi man mano che si avvicinavano, ma nessuno dei due prestò attenzione a quello spettacolo sì, meraviglioso, ma misero se confrontato al segreto che avevano appena svelato.

Dodici gabbiani in formazione a V, bianchi di luna sopra il candido latte delle nuvole, procedevano lenti verso il fiume. Il pilota li vide, e sorrise. L’effetto della pillola rossa era finito, lo show era terminato.

Si girò verso la Hale-Bopp e gli apparve per quello che era, una cometa lontana che nessun biplano avrebbe mai potuto raggiungere o solo avvicinare. Tornò a osservare gli esseri alati sotto di lui, e non c’era dubbio, apparivano per ciò che erano, semplici gabbiani insonni.

La pasticca non dominava più le loro menti, erano tornati nella realtà.

Si tuffarono nelle nubi respirando un’ultima volta quella mistura umida e inebriante, e poi le nubi furono un soffitto soffice sopra di loro, e apparvero le fioche luci del paese; il pilota riconquistò l’orientamento, capì la direzione del campo di atterraggio e, con un’occhiata al passeggero per chiedere il permesso, puntò il muso del velivolo verso la terra e si impegnò in una discesa quasi verticale con il motore al minimo.

Il paese ingrandì, il freddo smise di mordere le carni, e il falò apparve, ora ridotto a lumino di braci da ravvivare, quasi sotto di loro.

Sorvolò la pista due volte, non voleva sbagliare l’atterraggio e rischiare le loro vite, poi approfittò del momentaneo capolino della luna tra due filari di nubi per guadagnare il terreno, le ruote tornarono a saggiare buche e zolle scuotendo lo scafo, il motore senza più manetta tossì, scese di tono, la coda si abbassò a toccare il suolo, e poco dopo il drago antico si chetò.

Ci fu un minuto, dopo che il motore fu spento, in cui nessuno dei due disse nulla né fece un solo movimento per uscire dalla carlinga.

Ma poi una cicala riprese il suo frinire interrotto, e questo spezzò la magia di quel momento.

L’aviatore scese dal suo aereo e aiutò il bambino a fare altrettanto. Alzarono gli occhialoni dal viso e si guardarono.

“Erano i tuoi genitori, vero?” chiese il pilota.

“Sì.”

“Sei soddisfatto? Ho mantenuto la mia promessa.”

“Sì. Grazie.”

Bene. Allora anche il bimbo aveva visto angeli, e probabilmente aveva avuto un’allucinazione simile alla sua.

Il pilota allungò la mano verso l’ala, dove il nastro adesivo si era staccato per l’ennesima volta dal rattoppo, catturando insetti e piume, e penzolava dietro il bordo posteriore dell’ala superiore sinistra. Tirò via il nastro con delicatezza e decisione. “Adesso vai, che è tardi – disse. – Forse le suore ti stanno già cercando.”

Il bambino corse verso di lui, si lanciò al suo collo, lo baciò su una guancia. Il temporale d’un attimo, poi corse via, veloce, con le gambe come quelle d’un giocattolo a molla.

Il pilota rimase fermo un enorme lasso di tempo, fermo a osservare ora il nastro adesivo con i suoi trofei catturati, ora lo sgambettare del bimbo che correva, sì, ma non in direzione del collegio.

Forse, si disse, forse il bimbo sa qualcosa che io, diventando adulto, ho perduto. Forse i suoi genitori gli hanno parlato, e io non so cosa si siano detti, e ora lui sa dove andare.

No, non avrebbe fermato il bambino, scoprì di non essere capace di fermare quella fuga e costringerlo a tornare in collegio, zimbello delle suore e del suo mutismo per un mondo diverso dal suo.

Sospirò, si rilassò e si avvicinò alle braci; avrebbe dovuto ravvivarle per la notte, certo, così prese un bastone e cominciò a rimuovere i ceppi semicarbonizzati, ripetendosi che lo faceva solo per riattizzare il fuoco.

E fu lì, miracolosamente intatta, che trovò ciò che non voleva ammettere di stare cercando.

Il bimbo l’aveva detto chiaramente, non prendeva mai le medicine, faceva finta.

La pasticca della droga, sepolta a metà dalla cenere nel punto in cui il bambino, di nascosto, l’aveva gettata, lo osservava come fosse un occhio rosso.

L’aviatore sospirò, sorrise. Prese il nastro adesivo che aveva staccato dall’ala, quell’ala che era stata sfiorata dagli angeli, e lo osservò alla luce dei primi guizzi di fiamma: due piume, soffici e candide come zucchero filato, erano rimaste catturate da quella sorta di carta moschicida, due piume dello stesso colore e consistenza della cometa lontana che ora, incorniciata da uno stormo di nubi, era libera di tornare in Paradiso.